29/04/15

La prima volta che ho fatto il dottore.

Sono tipo le 7 e mezza di sera.

Io sto a casa, che alle 8 devo uscire per andare a mangiare la pizza. Invece squilla il telefono.

«Sono Tizio della Croce Rossa» mi sento dire. «C'è un arrivo di migranti al nostro centro accoglienza. Abbiamo un unico dottore solo disperato, che per caso gli andresti a dare una mano un paio d'ore?»

Io è un po' che volevo fare qualcosa del genere. Che poi magari mi hanno chiamato proprio perché avevo fatto da poco presente questa mia disponibilità, suppongo... e vabbe': addio pizza, metto la divisa, e parto per 'sto posto dove devo andare.

Il centro accoglienza sta veramente, ma veramente in culo alla Luna. Però facciamo che arrivo subito, pure se invece non è vero, che non è che possiamo stare qua a scrivere davvero di ogni minimo particolare.

Insomma, il posto è un campeggio con una serie di container messi a schiera. Ogni container ospita - credo - 4 persone. Ce ne sono già una sessantina, e devono arrivarne altre 30.

Della Croce Rossa ci sono un po' di volontari e alcuni dipendenti. È notte, fa freddino, e ringrazio l'ultimo pezzetto di cervello non del tutto bacato che mi ha detto: "sì, ora fa caldo. Però il giaccone della divisa portatelo".

Tra i container vedo aggirarsi qualcuno degli ospiti del campo. Da una parte, un gruppetto ascolta alla radio una musica che non saprei dirvi se fosse hip hop o una qualche roba loro africana... o entrambe le cose. Gli faccio un gesto di saluto, e loro ricambiano. Avranno 12, 13, massimo 15 anni.

I nuovi ospiti stanno partendo dalla questura dopo tutte le procedure del caso, e tardano ad arrivare. Quando, a un certo punto, arriva la notizia: l'altro dottore che dovevo aiutare ha un problema, e non arriva più. I volontari sistemeranno i nuovi arrivi alla bene e meglio, e poi le visite mediche verranno fatte domani mattina. A meno che...

A meno cheeeeeeeee....

A meno cheeeeeeeeeeeeeeeeeee....

Vabbe', ovvio: a meno che non resto io. Io che 'sta cosa non l'ho mai fatta, e che un po' mi sento come se questo grande siluro che gira e che gira stia trovando mio malgrado una sua spiacevole sistemazione.

E devo dire che me la faccio veramente un po' sotto: non so bene che succederà se rimango, non penso di essere all'altezza... e poi mica è colpa mia che l'altro dottore ha avuto dei casini, no? E a me chi cavolo mi paga? E chi me lo fa fare!?

Intanto sento i dipendenti e gli altri volontari che si organizzano.

«Se qualcuno ci pare che abbia qualcosa di contagioso, lo mettiamo da solo e poi i dottori lo vedono domani».

Uno di loro è ben al secondo anno di Scienze Infermieristiche. Che problema c'è?

E insomma, io mi immagino questi che dopo un viaggio allucinante arrivano finalmente qui, e non trovano nessuno che se li caga, e non mi pare proprio questa cosa ben fatta. E anzi: diciamo pure che mi sento veramente, veramente una merda.

È deciso: rimango.

Con gli altri ci mettiamo a organizzare un po' il container dove avverranno le visite. Lo studente di infermieristica mi fa un ripasso sulla scabbia e mi mostra la scorta a vita di Permetrina che lui stesso ha comprato. Io mi preparo mentalmente con il fonendoscopio trovato nell'uovo di pasqua in una tasca (l'altro l'ho lasciato in ospedale) e il prontuario della guardia medica nell'altra.

Passa un'altra oretta bella piena, e - finalmente - arriva il pulmino dei volontari che porta i nuovi ospiti.

Sono 17. Ci ha detto bene, che ne aspettavamo 30. A un primo sguardo sembrano un po' più grandi dei ragazzini che vedevo prima. Molti di loro hanno delle coperte sulle spalle, e le donne portano lo chador.

Gli operatori della Croce Rossa li fanno mettere in fila, e prendono le loro generalità. L'idea è di fare un elenco, vedere chi ha problemi sanitari particolari da gestire subito, poi fargli fare una doccia, dargli da mangiare e infine sistemarli negli alloggi dove saranno ospitati in attesa di un'altra visita - più accurata - che sarà fatta domani mattina.
 
Inizio col vedere prima le donne. Per fortuna c'è una di loro che parla inglese, e si offre di aiutarmi per comunicare con chi invece parla solo la propria lingua, se no era un bel problema. Mi faccio anche aiutare da una volontaria, che visitare le donne da solo non conoscendo i relativi usi e costumi non mi pare davvero una grande idea. Proprio no.

Con tutti quanti inizio facendo le domande "standard" che stanno su un foglio di visita "standard" che mi hanno lasciato, e poi improvviso a seconda dei casi e delle necessità.

«Hai problemi di salute?»

La risposta, in genere, è "no". Ma poi tanto come gli fai altre 2 domande viene fuori ogni patologia contenuta nell'Harrison, e anche qualcosa che devono ancora scoprire.

«Hai prurito?» chiedo.

A questa rispondono praticamente tutti "sì".

«Hai la tosse?»

«Sì»

«Ti fa male da qualche parte?»

Sempre "sì".

E così via, domanda dopo domanda, in una sorta di screening nei confronti di una popolazione ridottissima ma nella quale la prevalenza di patologie di qualunque tipo è 10 mila volte quella all'interno della popolazione generale. Per dirlo in termini meno medichesi e più comprensibili, i migranti arrivano qui che stanno tutti rovinati.

Per il resto mi limito a guardare sulle braccia e sulle parti più esposte se ci sta qualche lesione. Poi sento il torace col fonendo per capire se qualcuno ha la polmonite, e poi insomma guardo quello che c'è da guardare ma senza starci troppo a perdere tempo, che è tardissimo e loro sono tanti e ci sono ancora un sacco di cose da fare.

Sul foglio della visita scrivo qualche riga riguardo a quello che ho trovato. Se c'è qualcosa che ritengo vada approfondito in seguito, lo scrivo grande e lo sottolineo più volte.

Finisco di vedere le donne, e passiamo agli uomini. Anche qui c'è chi ci dà una mano facendo da interprete, e adesso mi aiuta un volontario maschio. Rispetto alle donne, gli uomini sono più malandati. Sembrano anche più grandi, ma l'età media è sempre 18, 20, 25 anni. Difficile che qualcuno ne avesse di più.

«Qui mi hanno sparato nel 2002» mi dice uno, mostrandomi una gamba ridotta male. Poi si alza la maglietta, e mi fa vedere due buchi sulla pancia.

«Questi, invece, me li hanno fatti qualche anno dopo».

"Esiti di ferite da arma da fuoco all'arto inferiore destro e all'addome", scrivo sul foglio visita. Intanto mi chiedo se ho mai conosciuto qualcun altro a cui abbiano sparato da ragazzino. Due volte. E non me ne vengono in mente poi tanti.

Un altro mi dice in inglese qualcosa che tradurrei tipo: "l'Italia e la Somalia devono essere unite".

Quale dei nostri politici eleggerebbe a cavallo di battaglia una affermazione del genere? Probabilmente, chiunque di loro.

Nel corso delle visite lancio tubetti di Permetrina come se fossero coriandoli. Ho ben 6 (SEI) pasticche di tachipirina da distribuire saggiamente a quelli che sembrano più doloranti. Intanto sottolineo patologie e malanni mai sentiti, o che sembrano la versione super-incazzata di cose che qua sono banalissime. Domani verrà qualche altro medico un po' più esperto, e vorrei che insomma certe cose fossero - nei limiti delle mie possibilità - chiare.

«Mi fanno male le gambe» così dicendo, uno degli uomini fa il gesto di portare le ginocchia al petto. «Sulla barca sono stato tutto il tempo così».

«Quanto siete stati sulla barca?» chiedo io.

Lui ci pensa un po', come se avesse difficoltà a mettere insieme i giorni e le notti.

«Quattro...» dice. «No! Cinque giorni».

Io deglutisco, e non dico niente: cinque giorni su una barchetta in mezzo al mare. Che loro non è che sono stupidi: lo sapranno che, la barchetta, un numero statisticamente significativo di volte da qualche parte arriva. Ma sapranno pure che - qualche altra volta - no.

Un po' come da noi quando prendi l'aereo e c'hai paura che casca. Soltanto con la possiblità che cada davvero moltiplicata per 100 mila milioni di miliardi di volte... ma comunque - più o meno - stiamo lì.

Mi rendo conto che continuo a tirare fuori stastiche, numeri, possibilità. Sarà che alla fine ho visitato 17 persone nel giro di 2 ore e mezza. Sono le 3 di notte. Ho la schiena che implora pietà tra L4 e L5 e vorrei dire che sono felice, stanco, allegro e soddisfatto... ma per il momento sono solo contento di poter tornare a casa a dormire tutte le ore che posso.

Finito tutto quello che c'è da fare, i volontari mi riaccompagnano col pulmino per un tratto di strada. La periferia è un chiaroscuro di luci e palazzi che si perdono a vista d'occhio. Sul cellulare ho una foto mia, in divisa, davanti al container/ambulatorio dove ho fatto le visite.

Faccio per metterla su Facebook. Scrivo un commento del cazzo sull'Europa, sui migranti, e su tutte queste cose di cui si parla sempre... ma poi, alla fine, ci ripenso.

Cancello tutto, e la foto me la tengo per me.

Simone

6 commenti:

Anonimo ha detto...

Bellissimo post Simone, complimenti!!
Credo che, se questa esperienza l'avessi fatta da neomedico ventenne forse..avresti preferito la pizza ad una notte di lavoro gratuita.Forse, la tua vocazione è arrivata quando hai raggiunto la maturità e la consapevolezza per poterne godere pienamente!!In bocca al lupo!!
Saluti,da ingegnera pentita :-)

Simone ha detto...

Forse davvero per ogni cosa c'è il momento giusto. Grazie!! :)

Simone

Teresa ha detto...

Questo post è commovente, complimenti!

Una tua affezionata lettrice sin dall'inizio del precedente blog

Simone ha detto...

Teresa: grazie! :)

Simone

Anonimo ha detto...

Si concordo con Teresa, bel post!Silvia

Anonimo ha detto...

che bravo!! non ci sono parole!! sei un esempio raro di umanità!!! ce ne fossero di persone come te, medici e non medici!! Cecilia